giovedì 15 novembre 2012

Rangers e San Lorenzo: quando il calcio diventa fede


Quando si parla di calcio, si parla di sport. Uno sport che ha unito, in poco più di cento anni, popoli in ogni angolo del mondo facendone un ideale comune, con un semplice pallone che da oggetto imprescindibile nella riuscita di una semplice partita diventa un simbolo. Un pallone è simbolo di libertà, nel senso più ampio del termine. Perché può capitare che il calcio riesce anche dove nemmeno le menti più geniali della storia ce l’hanno fatta. Un pallone è uguale dappertutto, dall’Islanda all’Australia, passando per Israele e Palestina o per Iraq e Kuwait.
Studiando attentamente la storia di questa disciplina si possono scoprire però i molteplici significati che nel globo ha assunto ciò che in origine gli inglesi avevano inventato come passatempo. Inserito in contesti sociali più svariati, il calcio può diventare fenomeno di aggregazione come copertura – soprattutto in certe parti del mondo – per il malaffare, così come rifugio da una vita di strada che sembra sentenziare dalla nascita gente che ha avuto la sfortuna di nascere “dalla parte sbagliata”. Una domanda però si sono posti in pochi: e se il football fosse una fede? Esatto, avete capito bene: fede. Pensiamoci un attimo: alla parola “fede” si associa fondamentalmente una religione, qualunque essa sia, quindi dopo tanti anni in cui si “professa” l’amore per una squadra, perché non ci si può definire “fedeli”? 



Glasgow, la seconda città scozzese in quanto a popolazione, è l’esempio lampante di cosa significhi “vivere” per un club. Le due realtà cittadine, Rangers e Celtic, sono separate da più di cent’anni di rivalità. Protestanti contro cattolici: un film già visto. Quando quest’estate i Rangers sono stati retrocessi in quarta serie a causa di irreparabili buchi economici nel bilancio, i tifosi si sono rimboccati le maniche non solo organizzando una marcia dell’orgoglio Gers, ma aprendo il portafoglio e raccogliendo quanto bastava per garantire l’iscrizione alla Third Division dove ad aspettare i Blues c’erano piccole realtà come l’Annan, il Montrose o il Queen of South, tutte pronte a “sgambettare” il gigante ferito. Anche i giocatori hanno fatto la loro parte: della squadra che fino alla scorsa stagione contendeva il titolo ai Bhoys sono rimasti il capitano McCulloch, il terzino Wallace e le punte Templeton e Cousin, pronte a rimettersi in gioco per la causa e per ripagare un tifo, a detta loro, incredibile. Tra i sopravvissuti all’epurazione c’è anche il difensore rumeno Goian, ex Palermo, che in una recente intervista ad un quotidiano scozzese ha dichiarato: “Giocare qui è come giocare la Champions. Questa gente mi fa sentire il più forte del mondo”. Già, la gente: cosa sarebbe senza le persone, questa sport? E cosa sarebbe una religione senza discepoli? Ecco che le analogie si sprecano.

Buenos Aires, cuore dell’Argentina. In una città che vive per il futbòl e che mischia come un frullatore le sue tifoserie, più di due milioni di turisti l’anno arrivano in cerca di emozioni facendo di tutto per una presenza alla Bombonera (stadio del Boca Juniors) o per vivere, una volta nella vita, le emozioni del Monumentàl, tana del River Plate. Non molto lontano dai quartieri più famosi, ma fuori dalla zona turistica tradizionale, esiste il quartiere di Boedo. I tifosi del San Lorenzo, che a Boedo fanno gli onori di casa, non avranno timore ad accogliervi per farvi respirare l’atmosfera attorno ad una società che nell’ultimo decennio è stata spogliata del suo onore e stuprata da presidenti che hanno pensato a prosciugare le casse del club.

Ma il San Lorenzo è appartenenza: appartenenza ad un’idea, appartenenza ad un quartiere che a Buenos Aires è tra i più storici. Boedo è “barrio de murga y carnaval” (come recita uno dei cori più famosi dedicati al Ciclòn), Boedo è La Gloriosa Buttelèr, tifoseria conosciuta per le sue coreografie che farebbero invidia a Madonna e che in trasferta smuove sempre migliaia di persone. La società naviga in acque torbide, e dopo aver evitato la retrocessione nello scorso campionato è molto probabile che cadrà quest’anno. Ma i tifosi, da anni, hanno condotto un’altra battaglia. Quando a cavallo degli anni ottanta il Presidente di allora vendette lo spazio su cui sorgeva lo stadio Gasometro (per motivi politici legati alla dittatura), i tifosi si videro privare di uno spazio considerato vitale perché compreso nell’area di Boedo e dovettero traslocare più a sud, a Bajo Flores, in un impianto molto meno congeniale, l’attuale Nuevo Gasometro. L’8 marzo 2012 c’è stata la “Marcia dei centomila”, con tifosi e simpatizzanti che hanno inscenato una processione con capolinea Plaza de Mayo e Avenida La Plata, il punto esatto dove sorgeva il vecchio Gasometro. Un associazione, intitolata al compianto scrittore Osvaldo Soriano, si occupa di mantenere viva l’area mentre vip come Adolfo Rès e l’attore Viggo Mortensen hanno ricomprato i terreni dove sorgerà in futuro l’impianto. La “Vuelta a Boedo” ha avuto successo, e proprio come ha confessato lo storico Rès: “Questa è la nostra casa, la nostra Terra Santa”.
Dalla Scozia all’Argentina si hanno dimostrazioni di come i tifosi siano importanti, di come la gente sia fondamentale soprattutto quando lotta per una causa comune e mette il sentimento davanti a tutto. I Rangers hanno avuto la loro rinascita, il San Lorenzo riavrà il suo stadio. Magari un giorno, qualcuno, riavrà il suo Filadelfia.D’altronde, come disse un ex giocatore: “Alla partita si va di domenica, come a messa: ci sarà un motivo no?”

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