Quando si parla di calcio, si parla di sport. Uno sport che ha unito, in poco più di cento anni, popoli in ogni angolo del mondo facendone un ideale comune, con un semplice pallone che da oggetto imprescindibile nella riuscita di una semplice partita diventa un simbolo. Un pallone è simbolo di libertà, nel senso più ampio del termine. Perché può capitare che il calcio riesce anche dove nemmeno le menti più geniali della storia ce l’hanno fatta. Un pallone è uguale dappertutto, dall’Islanda all’Australia, passando per Israele e Palestina o per Iraq e Kuwait.
Studiando attentamente la storia di
questa disciplina si possono scoprire però i molteplici significati che
nel globo ha assunto ciò che in origine gli inglesi avevano inventato
come passatempo. Inserito in contesti sociali più svariati, il calcio
può diventare fenomeno di aggregazione come copertura – soprattutto in
certe parti del mondo – per il malaffare, così come rifugio da una vita
di strada che sembra sentenziare dalla nascita gente che ha avuto la
sfortuna di nascere “dalla parte sbagliata”. Una domanda però si sono
posti in pochi: e se il football fosse una fede? Esatto,
avete capito bene: fede. Pensiamoci un attimo: alla parola “fede” si
associa fondamentalmente una religione, qualunque essa sia, quindi dopo
tanti anni in cui si “professa” l’amore per una squadra, perché non ci si può definire “fedeli”?
Glasgow, la seconda città
scozzese in quanto a popolazione, è l’esempio lampante di cosa
significhi “vivere” per un club. Le due realtà cittadine, Rangers e
Celtic, sono separate da più di cent’anni di rivalità. Protestanti
contro cattolici: un film già visto. Quando quest’estate i Rangers sono
stati retrocessi in quarta serie a causa di irreparabili buchi economici
nel bilancio, i tifosi si sono rimboccati le maniche non solo
organizzando una marcia dell’orgoglio Gers, ma aprendo il portafoglio e
raccogliendo quanto bastava per garantire l’iscrizione alla Third
Division dove ad aspettare i Blues c’erano piccole realtà come l’Annan,
il Montrose o il Queen of South,
tutte pronte a “sgambettare” il gigante ferito. Anche i giocatori hanno
fatto la loro parte: della squadra che fino alla scorsa stagione
contendeva il titolo ai Bhoys sono rimasti il capitano McCulloch, il
terzino Wallace e le punte Templeton e Cousin, pronte a rimettersi in
gioco per la causa e per ripagare un tifo, a detta loro, incredibile.
Tra i sopravvissuti all’epurazione c’è anche il difensore rumeno Goian,
ex Palermo, che in una recente intervista ad un quotidiano scozzese ha
dichiarato: “Giocare qui è come giocare la Champions. Questa gente mi fa
sentire il più forte del mondo”. Già, la gente: cosa sarebbe senza le
persone, questa sport? E cosa sarebbe una religione senza discepoli?
Ecco che le analogie si sprecano.
Buenos Aires, cuore
dell’Argentina. In una città che vive per il futbòl e che mischia come
un frullatore le sue tifoserie, più di due milioni di turisti l’anno
arrivano in cerca di emozioni facendo di tutto per una presenza alla
Bombonera (stadio del Boca Juniors) o per vivere, una volta nella vita,
le emozioni del Monumentàl, tana del River Plate. Non molto lontano dai
quartieri più famosi, ma fuori dalla zona turistica tradizionale, esiste
il quartiere di Boedo. I tifosi del San Lorenzo, che a Boedo fanno gli
onori di casa, non avranno timore ad accogliervi per farvi respirare
l’atmosfera attorno ad una società che nell’ultimo decennio è stata
spogliata del suo onore e stuprata da presidenti che hanno pensato a
prosciugare le casse del club.
Ma il San Lorenzo è
appartenenza: appartenenza ad un’idea, appartenenza ad un quartiere che a
Buenos Aires è tra i più storici. Boedo è “barrio de murga y carnaval”
(come recita uno dei cori più famosi dedicati al Ciclòn), Boedo è La
Gloriosa Buttelèr, tifoseria conosciuta per le sue coreografie che
farebbero invidia a Madonna e che in trasferta smuove sempre migliaia di
persone. La società naviga in acque torbide, e dopo aver evitato la
retrocessione nello scorso campionato è molto probabile che cadrà
quest’anno. Ma i tifosi, da anni, hanno condotto un’altra battaglia.
Quando a cavallo degli anni ottanta il Presidente di allora vendette lo
spazio su cui sorgeva lo stadio Gasometro (per motivi politici legati
alla dittatura), i tifosi si videro privare di uno spazio considerato
vitale perché compreso nell’area di Boedo e dovettero traslocare più a
sud, a Bajo Flores, in un impianto molto meno congeniale, l’attuale
Nuevo Gasometro. L’8 marzo 2012 c’è stata la “Marcia dei
centomila”, con tifosi e simpatizzanti che hanno inscenato una
processione con capolinea Plaza de Mayo e Avenida La Plata, il punto
esatto dove sorgeva il vecchio Gasometro. Un associazione, intitolata al
compianto scrittore Osvaldo Soriano, si occupa di mantenere viva l’area
mentre vip come Adolfo Rès e l’attore Viggo Mortensen hanno ricomprato i
terreni dove sorgerà in futuro l’impianto. La “Vuelta a Boedo” ha avuto
successo, e proprio come ha confessato lo storico Rès: “Questa è la
nostra casa, la nostra Terra Santa”.
Dalla Scozia all’Argentina si
hanno dimostrazioni di come i tifosi siano importanti, di come la gente
sia fondamentale soprattutto quando lotta per una causa comune e mette
il sentimento davanti a tutto. I Rangers hanno avuto la loro rinascita,
il San Lorenzo riavrà il suo stadio. Magari un giorno, qualcuno, riavrà
il suo Filadelfia.D’altronde, come disse un ex giocatore: “Alla partita si va di domenica, come a messa: ci sarà un motivo no?”
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