giovedì 27 febbraio 2014
FOOTBALL PORTRAITS - Seydou Keita, il ragazzo di Bamako
Quando Pep Guardiola diceva che nei club grandi come il Barcellona lo spogliatoio è sacro, e devi avere uomini all'interno piuttosto che grandi giocatori, probabilmente faceva riferimento a lui.
Seydou Keita, centrocampista maliano dal fisico maestoso e dal cuore buono, nel Barcellona ha passato quattro stagioni facendo parte - anche se da comprimario - di una bella fetta (vincente) di storia del club. Guardiola per lui stravedeva, perchè comunque nel periodo blaugrana Seydou - maliano di Bamako - alla fine mette insieme quasi 120 presenze. Un leader nato, come Pep confermerà - stavolta nominandolo - nei primi giorni del suo avvento sulla panchina del Bayern. Quando le due strade si erano già divise da un pezzo.
Per raccontare la storia di questo ragazzone non si può prescindere da una premessa doverosa, riguardante il suo paese natale. Keita ed il Mali, un rapporto tutto fuorchè platonico, contrariamente alla frotta di africani che lasciano giovani il Continente Nero per poi dimenticarsene l'esistenza. Nato nel 1980 nella capitale maliana, Bamako (due milioni di abitanti, o poco meno), sulle rive del fiume Niger Seydou cresce tirando calci ad un pallone di stracci. Ma quello, come conferma oggi, era tutto il suo mondo. Un mondo che ha portato nel cuore, soprattutto negli ultimi anni quando il Mali - come molti paesi africani ancora politicamente in bilico - ha dovuto sopportare una violentissima guerra civile, della quale ancora oggi paga le conseguenze.
Cresciuto in una delle strutture più all'avanguardia dell'Africa, il Centre de Formation Salif Keita, il ragazzo - come tanti suoi conterranei - viene reclutato in Francia dove l'Olimpique Marsiglia decide di portarlo nel proprio vivaio per provare a sgrezzare un diamante dal fisico già imponente, ma terribilmente acerbo (com'è normale che sia) tatticamente. I primi anni della carriera scorrono via tra comparsate in prima squadra e la differenza evidente quando si trova a fronteggiare i suoi coetanei. Poi arriva la svolta, che ha le sembianze di Cristian Gourcouff, storico allenatore del Lorient. Il padre dell'ex milanista Yohann lo nota quando i suoi affrontano l'OL nel campionato under 19, e decide di portarlo lassù, nel cuore della Francia, in un paese più piccolo rispetto alla metropolica Marsiglia, dove Keita può crescere e finalmente esplodere. Il primo anno è da incorniciare, il secondo - culminato con la retrocessione - meno, visto che un fastidioso problema al ginocchio impedisce al centrocampista di giocare con continuità. Nel 2002 chiama il Lens, città calda con tifosi bollenti, rappresentati da due colori - rosso e oro - che secondo la tradizione del posto rappresentano il sangue della battaglia e il valore dell'appartenere a questo club. Cinque anni che lo consacrano, fatti di sacrifici e soddisfazioni (le prime convocazioni in nazionale, con la fascia di capitano indossata per la prima volta a 24 anni), con il risultato finale pari al massimo al quale può ambire un calciatore professionista. Ovvero, il Barcellona.
Parallelamente, l'appartenenza ad un paese come il Mali, tra i più poveri del mondo, cresce sempre più in Keita. Dona parecchi soldi in beneficenza a fondazioni locali, costruisce un centro sportivo a Bamako ("I bambini possono iscriversi gratis, a patto che si frequenti la scuola"), e nel 2012 - durante la Coppa d'Africa giocata in Guinea Equatoriale - Les Aigles arrivano terze mentre in patria impazza il conflitto, nato in seguito al colpo di stato del marzo 2012 e all'offensiva del Movimento Nazionale di Liberazione dell'Azawad (a prevalenza tuareg) e degli islamisti nel dicembre 2012. Mentre l'ONU, con i suoi caschi blu, intervengono per riportare l'ordine, Seydou e compagni superano agevolmente il turno di qualificazione e ai quarti battono il Gabon dopo la lotteria dei calci di rigore. La partita contro Moulongui e compagni è l'esatta foto della vita di Keita, dominata ma con il risultato a sfavore fino a cinque minuti dalla fine, quando proprio lui recupera un pallone a centrocampo e disegna un'apertura di trenta metri (per le quali impazziva Guardiola) trovando a sinistra l'accorrente Tamboura. Cross in mezzo, la testa di Diabatè anticipa tutti e nel boato di Libreville i maliani corrono tutti ad abbracciare il capitano, autore più tardi quando "sequestra" il pallone per segnare il rigore decisivo. La semifinale con la Costa d'Avorio andrà male, ma il terzo posto conquistato contro il Ghana è un risultato al quale nessuno avrebbe pensato durante la vigilia della manifestazione. Le lacrime finali sono tutte per la gente del Mali: "Vogliamo dedicare questo risultato ai nostri connazionali - disse Keita all'epoca avvolto nella bandiera tricolore, quasi come un podista che ha appena vinto i cento metri - non sono giorni facili. Per nessuno. Alcuni di noi hanno parenti dei quali non sanno nulla da settimane. Preghiamo per loro".
Un uomo di fede, Seydou, che nel 2013 decide un cambio radicale per la sua carriera; saluta il Barcellona ("La società ha provato a tenermi, ma io non mi sentivo più parte del progetto") e vola in Cina dove firma un contratto con il Dalian Aerbin, realtà in ascesa del calcio orientale. "Ho pensato alla mia famiglia, ai miei figli, a guadagnare ancora di più per loro - confidò qualche tempo dopo - ma il problema era sempre lo stesso". Il Mali, che Keita non può raggiungere facilmente per difendere i colori delle sue Aquile, quelle che ama, alle quali ha dato tanto ricevendo altrettanto. "Nel 2012 volevo dire addio alla nazionale. La federazioni, i compagni e i tifosi hanno quasi fatto la rivoluzione. E lì ho capito quanto sia apprezzato". E pensare che il destino poteva riservargli ben di più: "Quando giocavo nel Lens mi convocò l'Under 21 francese. Io risi e gentilmente declinai". Ora la nuova tappa si chiama Valencia, in un Spagna che per lui è diventata la seconda casa. Chi è nato a Bamako, in mezzo alla polvere e all'acqua contaminata del Niger, muore a Bamako. "Le cose miglioreranno in Mali, e io ci tornerò a vivere tra qualche anno. I miei figli devono essere orgogliosi delle loro origini".
Parola di Seydou, il ragazzo del popolo.
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