venerdì 1 novembre 2013

Buenos Aires e la Ciudad Ocúlta: vietato parlarne, ma Tevez non ci sta

 
Carlos Tevez mostra la maglietta
E’ il minuto 40 di Juventus – Verona quando Carlos Tevez risponde al vantaggio segnato da Cacciatore con una zampata delle sue, che impatta momentaneamente un match in seguito vinto da Madama. La corsa sotto la curva è normale per un tipo come lui, così come ormai da tempo lo sono le sue magliette celebrative, che l’ “Apache” – soprannome affibiatogli data la sua origine – mostra ad ogni sua rete dedicando ogni sua gioia alle zone disagiate di Buenos Aires.
 
Tevez non è mai stato un personaggio snob, e non ha mai fatto mistero delle sue origini povere; cresciuto alla Ciudadéla, Carlitos ha spesso commentato la sua adolescenza fatta di miseria e piccoli crimini, figli di un quartiere dove vige la legge del più forte e che molto spesso lo ha fatto finire nei guai, in quel barrio de los Andes in cui “anche Dio non metterebbe mai piede“. Contro l’Hellas è il momento di quella che a Baires chiamano “Ciudad Ocúlta“; la “città occulta” è il soprannome dato dagli abitanti della capitale argentina a una delle sue villas miseria, per la precisione la Villa 15, una delle baraccopoli più estese e degradate della metropoli sudamericana. Con 20.000 abitanti stimati, tra cui molti immigrati boliviani e paraguaiani, la Ciudad Ocúlta è una vera città nella città, originatasi negli anni ’40, durante il veloce sviluppo industriale della capitale e la conseguente migrazione di molti contadini dalle campagne alla metropoli. Oggi è uno dei suoi luoghi più poveri e pericolosi, un territorio controllato dalle gang dedite allo spaccio di droga, le cui abitazioni mancano spesso dei servizi più basilari, come acqua, luce e gas.
 
Una veduta della costruzione
Il soprannome nacque ai tempi della dittatura di Videla, quando l’allora sindaco della città – tale Cacciatore (guarda un po’ il caso) – decise di costruire un enorme muro che impediva al resto della metropoli di vedere quell’angolo dimenticato da tutti. Ma c’è una seconda corrente di pensiero, che attribuisce il significato del nome ad un edificio mastodontico, l’Elefante Bianco, un colosso fatto costruire ai tempi di Perón che sarebbe dovuto diventare il più grande ospedale della capitale. La sua mole, secondo le ricostruzioni, impediva la visuale del quartiere dalle strade limitrofe. Quest’ospedale non fu però mai terminato, ed oggi – in questo “gigante di cemento” ci vivono abusivamente centinaia di famiglie che lo hanno occupato.

Dietro alla Ciudad Ocúlta si nasconde anche una leggenda macabra, che risale al momento storico peggiore della storia argentina. E’ il 1978, e il comandante Videla è un mostro con tentacoli ovunque che non risparmia nessuno; il paese ospiterà a breve i mondiali di calcio ma il mondo non deve sapere. Non deve sapere che fine fanno i “desaparecidos”, non deve sapere che è in atto un’eliminazione sistematica di chi anche solo pare essere contro il mostro, non deve sapere come si vive a Buenos Aires nelle baraccopoli e, per non vedere nè sapere, un muro è quello che ci vuole. La costruzione è inevitabile, perchè i giornalisti venuti da tutto il mondo per l’evento calcistico più importante non cadano in tentazione, non indaghino, si limitino ad applaudire le gesta di Mario Kempes e compagni (che, a fine torneo, si laureeranno campioni del mondo) senza chiedersi il motivo di quest’aria troppo strana per essere vera.
 
Un campo da calcio improvvisato
A Villa 15 oggi si gioca per strada, facendo attenzione alle pandillas che uccidono per qualche moneta, ma di calcio professionistico nemmeno l’ombra. In passato si provò a sensibilizzare l’opinione pubblica organizzando qualche evento, ma dietro a questo muro tutto può succedere. “Nemmeno i barras del Nueva Chicago (una delle tifoserie più violente d’Argentina ndr) oserebbero andare alla Ciudad Ocúlta”, ha detto in un’intervista di qualche mese fa Julio Grondona, numero uno della Federazione argentina. Tevez invece ha rilasciato più volte interviste dove imputa ai media di non dare risalto al degrado di queste realtà. Lui, che è un uomo della “Villa“, non perde occasione per ricordare le sue origini. “Se non avessi fatto il calciatore sarei diventato un ladro o un drogato. Anzi, probabilmente sarei già morto”. Parole dure, che fotografano perfettamente il momento storico sociale che il Sudamerica sta vivendo in questi ultimi anni, dove il progresso avanza ma il degrado non diminuisce. Lui, Carlitos, l’hombre del pueblo, continuerà a parlarne. Potete scommetterci.

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