E’ il minuto 40 di Juventus – Verona quando Carlos Tevez
risponde al vantaggio segnato da Cacciatore con una zampata delle sue,
che impatta momentaneamente un match in seguito vinto da Madama. La
corsa sotto la curva è normale per un tipo come lui, così come ormai da
tempo lo sono le sue magliette celebrative, che l’ “Apache” –
soprannome affibiatogli data la sua origine – mostra ad ogni sua rete
dedicando ogni sua gioia alle zone disagiate di Buenos Aires.
Tevez non è mai stato un personaggio snob, e non ha mai fatto mistero delle sue origini povere; cresciuto alla Ciudadéla, Carlitos
ha spesso commentato la sua adolescenza fatta di miseria e piccoli
crimini, figli di un quartiere dove vige la legge del più forte e che
molto spesso lo ha fatto finire nei guai, in quel barrio de los Andes in cui “anche Dio non metterebbe mai piede“. Contro l’Hellas è il momento di quella che a Baires chiamano “Ciudad Ocúlta“; la “città occulta” è il soprannome dato dagli abitanti della capitale argentina a una delle sue villas miseria, per la precisione la Villa 15,
una delle baraccopoli più estese e degradate della metropoli
sudamericana. Con 20.000 abitanti stimati, tra cui molti immigrati
boliviani e paraguaiani, la Ciudad Ocúlta è una vera
città nella città, originatasi negli anni ’40, durante il veloce
sviluppo industriale della capitale e la conseguente migrazione di molti
contadini dalle campagne alla metropoli. Oggi è uno dei suoi luoghi più
poveri e pericolosi, un territorio controllato dalle gang dedite allo
spaccio di droga, le cui abitazioni mancano spesso dei servizi più
basilari, come acqua, luce e gas.
Il soprannome nacque ai tempi della dittatura di Videla,
quando l’allora sindaco della città – tale Cacciatore (guarda un po’ il
caso) – decise di costruire un enorme muro che impediva al resto della
metropoli di vedere quell’angolo dimenticato da tutti. Ma c’è una
seconda corrente di pensiero, che attribuisce il significato del nome ad
un edificio mastodontico, l’Elefante Bianco, un colosso fatto costruire
ai tempi di Perón che sarebbe dovuto diventare il più grande ospedale
della capitale. La sua mole, secondo le ricostruzioni, impediva la
visuale del quartiere dalle strade limitrofe. Quest’ospedale non fu però
mai terminato, ed oggi – in questo “gigante di cemento” ci vivono
abusivamente centinaia di famiglie che lo hanno occupato.
Dietro alla Ciudad Ocúlta si nasconde anche una leggenda macabra,
che risale al momento storico peggiore della storia argentina. E’ il
1978, e il comandante Videla è un mostro con tentacoli ovunque che non
risparmia nessuno; il paese ospiterà a breve i mondiali di calcio ma il
mondo non deve sapere. Non deve sapere che fine fanno i “desaparecidos”,
non deve sapere che è in atto un’eliminazione sistematica di chi anche
solo pare essere contro il mostro, non deve sapere come si vive a Buenos
Aires nelle baraccopoli e, per non vedere nè sapere, un muro è quello
che ci vuole. La costruzione è inevitabile, perchè i giornalisti venuti
da tutto il mondo per l’evento calcistico più importante non cadano in
tentazione, non indaghino, si limitino ad applaudire le gesta di Mario
Kempes e compagni (che, a fine torneo, si laureeranno campioni del
mondo) senza chiedersi il motivo di quest’aria troppo strana per essere
vera.
A Villa 15 oggi si gioca per strada, facendo attenzione alle pandillas
che uccidono per qualche moneta, ma di calcio professionistico nemmeno
l’ombra. In passato si provò a sensibilizzare l’opinione pubblica
organizzando qualche evento, ma dietro a questo muro tutto può
succedere. “Nemmeno i barras del Nueva Chicago (una delle tifoserie più violente d’Argentina ndr) oserebbero andare alla Ciudad Ocúlta”,
ha detto in un’intervista di qualche mese fa Julio Grondona, numero uno
della Federazione argentina. Tevez invece ha rilasciato più volte
interviste dove imputa ai media di non dare risalto al degrado di queste
realtà. Lui, che è un uomo della “Villa“, non perde occasione per ricordare le sue origini. “Se non avessi fatto il calciatore sarei diventato un ladro o un drogato. Anzi, probabilmente sarei già morto”.
Parole dure, che fotografano perfettamente il momento storico sociale
che il Sudamerica sta vivendo in questi ultimi anni, dove il progresso
avanza ma il degrado non diminuisce. Lui, Carlitos, l’hombre del pueblo, continuerà a parlarne. Potete scommetterci.
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