venerdì 9 giugno 2017

Il Perù di Gareca


Il Perù è senza dubbio la realtà calcistica più indecifrabile dell'intero continente latinoamericano. Le potenzialità di un paese che - dati Wikipedia aggiornati al 2015 - attualmente dovrebbe contare circa 32 milioni di abitanti (8 abbondanti dei quali residenti solo nella capitale Lima) sono esplosive. Almeno sulla carta.

Già, perché nella terra degli Incas di calcio a grandi livelli se ne vede davvero poco. Per trovare l'ultimo exploit della nazionale dobbiamo andare indietro fino al 1982, quando in Spagna la Franja Roja bloccò sull'1-1 i nostri Azzurri, poi futuri campioni del mondo. Era la nazionale capitanata da Teófilo Cubillas, il più grande giocatore peruano di tutti i tempi, che tra le proprie fila poteva vantare anche gente del calibro di Julio Cesar Uribe, Juan Carlos Oblitas e Gerónimo Barbadillo.

Se quella squadra è stata più volte riconosciuta come il miglior Perù di sempre, oggi la situazione è molto diversa. Il 1982 ha rappresentato un po' il canto del cigno per il calcio incaico, e trentacinque anni dopo troviamo solo tanti tentativi di ricostruzione. Tutti, tristemente, finiti male.


L'uomo della tanto agognata svolta è stato individuato in Ricardo Gareca, argentino di nascita ma peruviano di adozione. El Tigre, soprannominato così per il suo temperamento forte e per la grossa carica che sa infondere alle squadre che dirige, il paese lo conosce a fondo. Gli è bastata infatti un'annata alla guida dell'Universitario, uno dei colossi della capitale, per entrare in empatia con il Perù. Quella stagione culminò con la vittoria del campionato, e fu di fatto l'apripista a quelle successive, ricche di grandi successi alla guida del Velez. Classe 1966, Gareca diventa ct del Perù nel febbraio 2015, subentrando al dimissionario Pablo Bengoechea, che a sua volta aveva preso il posto di Sergio Markarian, uno dei pochi ad aver portato qualche risultato accettabile a La Vidéna.

La costruzione
L'obiettivo principale, concordato con la federazione, rimane il medesimo: portare il Perù ad un mondiale. Missione impossibile, o quasi, tanto che Gareca - pur avendo fatto un percorso discreto in queste qualificazioni - ha capito sin da subito che bisogna guardare oltre, perché andare in Russia sarà molto difficile. Immediatamente dopo il suo arrivo inizia l'opera di costruzione; il primo biennio vede il Perù partecipare al doppio impegno continentale, che Gareca prova ad affrontare con il gruppo portante delle gestioni precedenti. In Cile, alla Copa America del 2015, El Tigre porta il Perù al terzo posto, e in quella successiva arriva fino ai quarti di finale.

Più che i risultati però, è interessante osservare le scelte che Gareca ha fatto via via col tempo: scelte spesso impopolari, che gli hanno messo contro media e tifosi, come l'esclusione definitiva dalle convocazioni di certi nomi illustri.

Le condizioni
I ragazzi peruani impegnati all'estero non stanno facendo sfracelli. Anzi, la mania nostalgica verso certi big come Juan Manuel Vargas, Jefferson Farfan o Claudio Pizarro deriva proprio dal fatto che questi stessi giocatori - ad oggi - non hanno ancora dei degni sostituti. Gareca attinge spesso dal campionato locale, che però è di livello bassissimo.

Per intenderci, su dieci tornei professionisti del subcontinente, il Descentralizado si colloca stabilmente nelle ultime tre posizioni assieme alla Primera Division boliviana e quella venezuelana. A dirlo sono i fatti, e soprattutto i risultati che i club ottengono ogni qual volta varcano i confini del paese: nelle ultime nove edizioni di Copa Libertadores, il Perù ha portato una rappresentante agli ottavi di finale solo quattro volte. Di queste, solo il Real Garcilaso è riuscito ad approdare ai quarti di finale. E il discorso non cambia molto se guardiamo alla Copa Sudamericana, dove i club franjeados sono i protagonisti in negativo di tutti i primi turni.


Tornando sugli "stranieri", il fattore comportamentale incide molto, talmente tanto che anche i ragazzi più talentuosi (due su tutti: André Carrillo e Renato Tapia) faticano ad imporsi con continuità. Il caso di Carrillo è emblematico: portato in Europa dallo Sporting Lisbona, el Culébra nel 2015 è stato protagonista in prima persona di un incidente diplomatico con Bruno De Carvalho, vulcanico numero uno dei Leoni. Al centro di tutto c'era il rinnovo di contratto rifiutato dal ragazzo che - si dice - avesse già dato la sua parola ai rivali cittadini del Benfica. Morale della favola? Confino forzato in tribuna fino alla sessione di mercato estiva del 2016. In pratica un anno perso.

Il momento attuale
Eppure si ha la sensazione che la nazionale potrebbe fare di più, sia in termini di gioco che in termini di risultati. Le recenti partite di avvicinamento a Russia 2018 lo hanno confermato, visti gli otto punti collezionati negli ultimi sei match. Punti che potevano essere molti di più se la squadra non avesse palesato i soliti, atavici problemi di concentrazione.


Le prestazioni contro Paraguay ed Uruguay hanno messo in mostra tutto il meglio della gestione Gareca: squadra corta, attenta, che gioca un calcio verticale intenso e affilato. Non è un caso che i frutti del lavoro il tecnico li abbia raccolti proprio nell'ultimo anno scarso, lasso di tempo che coincide con quella che forse è stata la decisione più difficile da prendere da quando è tornato a Lima: allontanare i senatori. Ad un ambiente che vive ancora dei guizzi di Farfan, dei gol di Pizarro e dei gesti balistici di Vargas, una ventata di aria fresca ha fatto più che bene. Su di loro Gareca, da buon padre di famiglia, non è stato categorico ma ha saputo usare le parole più adatte alla situazione: "Hanno dato tanto e li ringrazio. Tutti sono arrivati ad un punto della carriera in cui l'età si fa sentire. Non li escludo a priori perché meritano rispetto, ma devo prima pensare al bene del gruppo".

Il Perù del futuro
Assodato il fatto che andare in Russia è quasi impossibile, Gareca lavora per arrivare bene alla Copa America del 2019, appuntamento organizzato dal Brasile, che farà da apripista al mondiale allargato. Un torneo al quale la Franja Roja vuole, anzi deve esserci.

Il nuovo Perù, come da tradizione sudamericana, si costruisce da centrocampo in su. Principalmente per due motivi. Il primo riguarda le risorse a disposizione di Gareca, che ha nella mediana e nell'attacco le due zone del campo con più scelta ed affollamento. Giocando di base con il 4-2-3-1, e dando per assodato che lì davanti Paolo Guerrero è intoccabile, un ruolo fondamentale lo hanno le tre figure schierate dietro alla punta centrale. In queste rotazioni girano principalmente André Carrillo, Christian Cueva ed Edison Flores, tutti in possesso di ottime doti tecniche che troppo spesso si abbinano alla cronica discontinuità che contraddistingue questa tipologia di giocatore.


Cueva è probabilmente il peruviano più incisivo di tutti in questo preciso momento storico. Cresciuto a Huamanhuco, nella sierra liberteña, entra presto a far parte del vivaio dell'Universidad San Martin, poi matura due esperienza all'estero (Union Española e Rayo Vallecano: entrambe sfortunate) prima di tornare in patria all'Alianza. La sua esplosione gli permette di firmare con il Toluca, e poi con il San Paolo in Brasile, dove ha completato definitivamente la sua maturazione. Da lui passa la gestione del gioco di un Perù che in mezzo si affida principalmente a Renato Tapia e Yoshimar Yotun, due centrocampisti più abili a cucire che a proporre (Yotun è addirittura un terzino riadattato).

Il vero problema è dietro, dove soprattutto il pacchetto di centrali non riesce a rinnovarsi, tanto da doversi affidare ancora al Mudo, al secolo Alberto Rodriguez. A fianco a lui si sono alternati diversi interpreti tra i quali Callens e Ramos, che - nemmeno a dirlo - arrivano entrambi da esperienze fallimentari in Europa. Migliore è la situazione sulle fasce, con  Aldo Corzo e Luis Advincula (anche lui reintegrato dopo una sospensione impostagli grazie all'ennesima notte brava) a giocarsi un posto sulla destra, e Miguel Trauco - fresco di passaggio al Flamengo - sull'out opposto. In porta per ora gioca Pedro Gallese, l'unico estremo difensore con una parvenza di credibilità internazionale.


El Depredador e i suoi eredi
Un capitolo a parte lo merita Paolo Guerrero.
El Depredador è uno dei centravanti più forti del subcontinente. Lo ha dimostrato in passato, soprattutto al Corinthians, e lo sta dimostrando ancora oggi, spaccando le porte brasiliane (e non solo) con la maglia del Flamengo. I suoi numeri parlano chiaro, soprattutto in nazionale dove con 31 gol in 82 partite è il massimo goleador di sempre davanti a mostri sacri come Teodoro Fernández e Teófilo Cubillas.

Guerrero è croce e delizia per questo Perù. Grazie a lui la squadra ha uno sbocco offensivo di livello, con una percentuale di realizzazione impressionante oltre alle sue indiscusse doti di leader. Per contro, il suo prossimo addio alla nazionale aprirà uno squarcio molto complicato da richiudere. Il sostituto naturale di Guerrero in questo momento non c'è: quando manca il Depredador gioca Raul Ruidiaz, unico attaccante attualmente selezionabile da Gareca che abbia le movenze da punta pura. E, cosa ancora più grave, nessuna delle nuove leve sembra poter ambire a prendere il posto di Guerrero, dato che Alexander Succar sembra ancora molto acerbo (per quanto abbia alcuni colpi interessanti) e di Luis Iberico si sono perse le tracce.

Il Perù vorrebbe tornare grande dopo i fasti degli anni '70 e '80, che hanno portato a Lima e dintorni una Copa America ed il prestigio internazionale. Nel 2019, in Brasile, vedremo se in quattro anni Gareca sarà riuscito a dare lo scossone decisivo. Ciò che di positivo verrà sarà bene accetto, purché non si tratti di un successo estemporaneo. In questo il Perù ha già dato.



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